La consultazione di coppia
di V. Califano, E. Nicolini.
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In questo capitolo si espongono alcune considerazioni fondamentali riguardanti la cornice teorica di riferimento che emerge dal dispositivo clinico psicoanalitico di coppia e famiglia, con lo scopo di focalizzare gli aspetti a nostro avviso centrali nella consultazione di coppia, sul versante della tecnica e relativi alle particolarità di questo setting. Questi aspetti vengono illustrati con alcuni frammenti clinici.
Si conclude con una esemplificazione più estesa per evidenziare sia la processualità inerente al percorso di consultazione, sia una delle più frequenti modalità in cui si pone la richiesta di aiuto in questo ambito.
Note sulla nozione di legame
Perché sempre più spesso gli autori che riflettono sulla loro pratica con insiemi multipersonali (le coppie, le famiglie, i gruppi, ecc.) si avvalgono di nozioni nuove che, spesso, non rientrano comodamente nel consueto e tradizionale tessuto concettuale psicoanalitico? La nozione di legame (o vincolo) é, paradigmaticamente, una di esse.
Sembrerebbe che alcuni concetti largamente utilizzati in passato e profondamente radicati in quel corpus teorico siano oggi considerati insufficienti. Avviene per esempio con il concetto d’identificazione proiettiva (intesa come processo, non solo difensivo, che consiste nel proittare all’interno dell’oggetto fantasie e aspetti scissi di sé con scopi di controllo) e con certe nozioni, come identificazioni proiettive incrociate o collusive (vale a dire quando le identificazioni proiettive reciproche tra i componenti della coppia colludono nella loro complementarità rafforzandosi a vicenda nella loro fissità), benché si ritenga il versante identificatorio imprescindibile e comprimario quando si lavora con questi insiemi.
Imprescindibile, dicevamo, perché sappiamo che una relazione significativa può stabilirsi tra più soggetti solo se essi possono rintracciare tratti comuni, un possibile inconscio rispecchiamento reciproco o riconoscere tra loro una identità di un qualche genere. Ad iniziare dai classici scritti freudiani, in questo ambito teorico-clinico é primario il riferimento all’identificazione, che pone in evidenza questa componente di somiglianza, di affinità, che é anche presente sul versante della complementarità. Per quanto riguarda quest’ultima è molto nota la presenza o la partecipazione della identificazione con il partner nella scena fantasmatica e/o nei comportamenti in cui è in gioco, per esempio, la contrapposizione attivo - passivo, oppure femminile e maschile.
Che all’interno di una famiglia o di una coppia, si creino miti, concezioni del mondo, processi difensivi inconsci e trame fantasmatiche comuni é ormai un pensiero consolidato. Tuttavia comune non significa necessariamente identico. Comune viene ad indicare che quelle formazioni sono sorrette da tutti i componenti del legame diversamente implicati (in virtù sia dei personali equilibri interni sia della propria soggettività, sia della posizione che occupano). E inoltre vuole evidenziare l’esistenza di processi di autoregolazione - anche disfunzionali - appartenenti e creati da quel dato insieme. Queste produzioni condivise non sono esclusivamente riconducibili a quanto appartiene all’ambito della identificazione e la complementarità, quand’anche queste ultime vengano considerate nella loro varietà e complessità.
Detto in altri termini, la costituzione di quel tessuto comune e condiviso che é una creazione singolare di ogni insieme eccede la dimensione identificatoria, benché non sia pensabile a prescindere da essa. Questa é la ragione per cui quelle nozioni a cui si é fatto riferimento sopra appaiono insufficienti per esaurire la complessità delle dinamiche e delle produzioni intersoggettive.
Ci é nota l’eterogeneità esistente tra realtà intrapsichica e realtà esterna. Questa eterogeneità permane quand’anche é umana la realtà esterna con cui ci confrontiamo: cioè l’altro soggetto del legame.
A nostro intendere questa é una delle questioni centrali alla base di posizioni teorico cliniche che divergono.
Il problema che si pone quando si cerca di teorizzare e descrivere le dinamiche inconsce che caratterizzano un insieme é quale senso si attribuisce al concetto di alterità, se si riconosce ad essa una qualità che oltrepassa la condizione di oggetto esterno. Ricordiamo che un oggetto investito quale specchio di sé (la relazione di oggetto narcisistica freudiana) é comunque riconosciuto come esterno, benché ad esso non viene, appunto, riconosciuta alcuna alterità.
Se nella teorizzazione e, specialmente nella clinica, l’alterità viene poi circoscritta alla nozione di oggetto e il legame creatosi con essa viene ricondotto alla teoria delle relazioni oggettuali, all’interno del circuito identificatorio, essa risulterà, in buona sostanza, misconosciuta. Se l’alterità si dissolve nelle identificazioni (incrociate, collusive, reciproche, ecc.) nulla sussiste di essa in grado di conferirgli una qualsiasi consistenza. Se gli accordiamo un qualche valore sarà appunto in opposizione ad identità, per riconoscerle quella proprietà che la rende non solubile alle identificazioni e conferirgli una funzione all’interno delle produzioni intersoggettive.
La clinica ci conferma ogni giorno che la nostra attività immaginaria tenta insistentemente di ricoprire identificatoriamente, come una ragnatela, l’alterità presente nel soggetto-altro del legame, nello sforzo di rendercelo noto e familiare, nell’illusione di com-prenderlo (nel doppio senso del termine). Questa insistenza é di per se stessa il contrassegno inequivocabile dell’inevitabile fallimento di questo tentativo e, al tempo stesso, l’evidenza di una diversità presente nell’altro irriducibile all’identificazione.
Questa diversità radicale che quando emerge ci rende l’altro (il figlio, il genitore o l’amato) improvvisamente estraneo e ignoto é il fondamento di quella inquietante separatezza, spesso dolorosa, che il legame tenta di suturare, nell’annodare i componenti di un insieme, di una coppia, di una famiglia.
Le produzioni fantasmatiche e difensive comuni e condivise all’interno di un insieme sono quindi tributarie sia delle identificazioni, sia dei processi di regolazione attivati e richiesti da questa diversità radicale presente nei soggetti che lo compongono.
Questa diversità che la presenza dell’altro impone (Berenstein, 2004) e contrasta sia quanto vorremmo immaginariamente familiare e intimo, sia ciò che verrebbe ad esaudire le nostre attese e desideri, costituisce una componente ineluttabile che ce lo rende alieno e richiede una continua esigenza di lavoro psichico. Essa promuove la formazione di fantasie intensamente investite emotivamente, di accordi e patti inconsci e denegativi (Kaës R., 1994) e come più avanti vedremo spesso sfocia nell’emergenza di conflitti (anche normali e necessari benché possano avere esiti patologici). Data la condizione di estraneità ed eterogeneità propria di quella diversità radicale rimarrà sempre di essa un versante irrapresentabile, ragione per cui l’esigenza di lavoro psichico e la ricerca di nuovi assetti interni ed intersoggettivi é continua
Quelle formazioni fantasmatiche e difensive condivise hanno un doppio scopo: vogliono garantire difese comuni (non necessariamente identiche tra i componenti) capaci di preservare la stabilità e continuità del legame. Contemporaneamente incitano trasformazioni nel versante intrapsichico. Il soggetto quindi costituisce l’insieme ed é al tempo stesso costituito da esso.
Riteniamo che queste considerazioni siano il punto di partenza dell’elaborazione di nuovi concetti psicoanalitici in questo ambito. Uno di essi é la nozione di legame intesa dal versante metapsicologico (e quindi non meramente descrittivo).
Il legame, in questo senso, come nozione centrale della dimensione intersoggettiva, é una trama fantasmatica e difensiva inconscia, sottesa da patti ed accordi inconsci, che si crea tra, nei e con i soggetti con cui si ha una relazione privilegiata di vicinanza emotiva. Si costituisce in quell’area intermedia di contatto e di confine in cui l’investimento narcisistico (identificatorio) del soggetto-altro coesiste e contrasta con quanto in esso c'è di non condivisibile, di radicalmente altro.
Ma oltre all’investimento reciproco é anche l’insieme stesso, concepito come unità, l’oggetto d’investimento comune di coloro che lo costituiscono. L’essere in coppia implica, come vedremo, un insieme di rappresentazioni cariche di significazioni libidiche ed emotive molto collegate alla propria condizione identitaria. Ciò si rende particolarmente evidente, ad esempio, nelle situazioni in cui emerge una possibile separazione: il lutto riguarda non solo il partner ma la perdita dell’appartenenza a quell’insieme intensamente investito e saturo di significazioni profonde.
In una riunione sociale tra amici Marco si avvicinò a un conoscente che intratteneva con certa insistenza la fidanzata di un suo fratello assente, e gli disse con qualche imbarazzo non privo d’incisività: “Fai attenzione, guarda che lei é roba di famiglia”, dando a intendere quel senso di appartenenza a un bene comune a cui facevamo riferimento.
Il legame di coppia
Consideriamo il legame di coppia come la relazione di alleanza (intesa in senso antropologico) che si costituisce tra due persone che, separandosi dalle loro famiglie di origine, creano una nuova unione che si spera duratura e ha inizio con la fase di innamoramento. Ciò significa che quella separazione, che comporta processi profondi e complessi, è una condizione necessaria alla costituzione di questo legame.
Una coppia è una particolare configurazione dei legami umani con un alto grado di specificità e complessità determinati dalle molteplici articolazioni che si stabiliscono tra alcuni parametri che la caratterizzano: la quotidianità e continuità della frequentazione o la convivenza, i rapporti d’intimità emotiva e sessuale (sia che questi ultimi si abbiano o no), un progetto condiviso di vita futura che prevede la nascita e la crescita dei figli (reali o simbolici), quanto la cura e la reciproca protezione.
Sono componenti centrali di questo legame la costruzione di un insieme di accordi e patti consci e inconsci (Nicolini E. 2001) che stipulano sia quanto è permesso o interdetto e/o precluso, sia un codice di significazioni condivise e un sistema di regole -esplicite e implicite - che consentono di relazionarsi e confrontarsi con l’imprevedibile di un futuro comune.
In queste produzioni condivise si sorregge il senso di appartenenza e di continuità del legame. Esse sono, al contempo, una creazione unica e comune, che singolarizza quel dato insieme coppia quanto coloro che ne fanno parte e ne sono al tempo stesso gli autori. Vale a dire che l’appartenenza a quel dato vincolo è costitutiva della loro singola soggettività (intesa come creazione unica e personale). Nell’essere soggetti del legame ne sono al contempo assoggettati.
Ognuno dei parametri definitori del legame di coppia sopra citati, o tutti loro, possono lungo il tempo divenire disfunzionali come conseguenza delle crisi vitali normali e/o contingenti sia dei singoli componenti, sia del legame stesso nel corso della sua vita (si pensi ad esempio alla nascita o alla perdita di un figlio, alle implicazioni psicologiche della precarietà in ambito lavorativo, al superamento della fase d’innamoramento, all’insorgere di una malattia, ecc.). Queste crisi destabilizzanti che mettono alla prova le risorse e la flessibilità del legame a volte molto dolorosamente, richiedono la creazione di nuovi accordi e di nuovi assetti emotivi e rappresentazionali, consci ed inconsci. Ne rimettono al lavoro le potenzialità di cambiamento e si costituiscono in motore di trasformazioni profonde che comportano alla coppia una forte esigenza di lavoro psichico, che eventualmente può divenire condizione di sviluppo patologico del legame.
Queste crisi s’intessono, dalla posteriorità, configurando la storia del legame e dei singoli soggetti che ne fanno parte. Costituiscono il patrimonio emotivo dei miti originari e delle produzioni interfantasmatiche della trasmissione inter e transgenerazionale (Kaës R. et al. 1993; Trapanese G. e Sommantico M. 2005; Granjon E. 2005; Trapanese G. 2008; Califano V. 2008). È un patrimonio vivo e quindi in grado di trasformazioni e di riletture inedite da prospettive diverse, innescate da nuovi eventi e diverse esperienze. Un patrimonio dunque capace di acquisire nuove significazioni e di mobilitare nuove risorse emotive necessarie al cambiamento, che consentono alle generazioni successive quei processi di appropriazione e risignificazione che fanno le fondamenta della loro identità.
Nei primi colloqui di consultazione, R. e C. ripercorrono - dalla posteriorità - la storia del loro vincolo. Da essa emerge con chiarezza la costruzione di una interfantasmatica sulle origini del legame che assegna alla loro unione una funzione e un progetto salvifici in sintonia con i desideri e i bisogni di ognuno: C. avrebbe finalmente garantito a R. (reduce di un recente tentativo di suicidio) la sicurezza e la protezione affettive di una famiglia che lei sentiva di avere perso precocemente. Mentre R. avrebbe dato a lui una posizione sociale ed economica nobilitante in grado di riscattarlo dalle sue umili origini e più consona con le sue ambizioni professionali e di vita. Su questo patto inconscio poggiava la saldezza della loro unione. Un patto che dopo si era reso insostenibile. Il suo fallimento era vissuto come un tradimento reciproco. L’elaborazione di questo fallimento e le trasformazioni dell’interfantasmatica delle origini, allora resa possibile, è stato il motore e il nucleo vivo del lavoro terapeutico con questa coppia.
Chi è il paziente?
Se pensiamo che l’insieme non si riduce alla somma delle sue parti costitutive, la coppia non può intendersi come l’addizione dei suoi componenti. Quest’ultima lascerebbe in ombra le produzioni intersoggettive suindicate che, invece costituiscono l’oggetto specifico dell’indagine clinica e dell’intervento terapeutico in questo dispositivo.
In altre parole, consideriamo del tutto fuorviante dal punto di vista teorico quanto clinico, una pratica ancora relativamente frequente nella consultazione di coppia che, dopo un colloquio iniziale in cui partecipano entrambi i componenti, vengano proposti colloqui individuali con ognuno di loro, prima di una “restituzione” in comune. Ne vedremo subito i motivi.
Il setting di coppia prevede l’incontro del o dei professionisti (se si decide di lavorare in co-terapia) con la coppia nel suo insieme ed esclude i contatti con i singoli (eccezione fatta della conversazione telefonica che consente di fissare un primo appuntamento e che è bene si limiti a questo scopo). Questa preclusione ha l’obiettivo di evitare informazioni “confidenziali” che uno o entrambi i membri della coppia, separatamente, potrebbero (o desidererebbero) fare al terapeuta all’insaputa dell’altro. Informazioni alle quali egli è poi legato implicitamente e che, ineluttabilmente, vengono a incidere in modo significativo sul suo ascolto e sul percorso della consultazione stessa, sul circuito transferale (nell’imporre tacite alleanze, nel creare malintesi e/o nel coinvolgere al terapeuta attribuendogli una responsabilità nella gestione di conflitti in atto più o meno tacitati). Inoltre, ma non meno importante, è da sottolineare che queste informazioni “confidenziali” nuociono la fiducia necessaria di entrambi i componenti della coppia verso il terapeuta e la posizione etica di quest’ultimo che non può accogliere né accettare alleanze collusive.
Queste “confidenze” molto spesso riguardano “segreti” che uno dei partner considera inammissibili per l’altro o che, secondo lui, potrebbero innescare agiti incontenibili e lesivi, o minacciare la continuità della relazione già gravemente conflittuale. La “confidenza” comporta per il terapeuta un “sapere” che rischia spesso di costituirsi in un vicolo cieco: si tratta di informazioni o di intenzioni e interpretazioni che non è libero di introdurre autonomamente nei colloqui, benché interferiscano il suo ascolto a causa dell’intenzione, più o meno consapevole di uno dei partner, di orientarne il percorso, predeterminandolo. È un contenuto carico di implicazioni emotive e di significati consci ed inconsci riguardanti il legame che, virtualmente, rimane precluso dagli scambi verbali nei colloqui. Sancisce implicitamente un patto di silenzio tra l’informatore e il terapeuta a spese dell’esclusione dell’altro, che non sa neppure di essere escluso ma ne risente gli effetti. Consiste dunque in una manipolazione agita e finalizzata all’esercizio di un potere che altera le condizioni del setting e la neutralità del terapeuta.
Se è quest’ultimo a proporre incontri individuali, involontariamente forse, crea una situazione ambigua dato che ognuno dei partner ignora quanto il terapeuta sa (o non sa) della intimità della coppia, della loro storia, oppure quanto viene detto (o non detto) delle motivazioni dell’altro riguardante la consultazione stessa. E altro ancora. Si crea, quindi e in sintesi, un ulteriore ostacolo che nuoce gli equilibri spesso già precari del legame che - appunto per questa precarietà o con la consapevolezza di una situazione di difficoltà - chiede aiuto psicologico.
Il setting nel dispositivo clinico di coppia
Il terapeuta è, dunque, tenuto a preservare anche nella consultazione, un setting in grado di garantire sia l’ascolto reciproco quanto il proprio, sia la possibilità di esaminare insieme le emozioni e le situazioni di conflitto o gli ostacoli esistenti.
È da segnalare che la decisione di chiedere una consultazione confronta la coppia con un difficile paradosso: devono poter stabilire un accordo sul fatto di chiederla, sui motivi che la rendono necessaria per ognuno o per entrambi, sulla scelta del terapeuta, sull’orario degli incontri ... perché sono in disaccordo. Non è un compito semplice. A volte si percepisce fin dai momenti iniziali del primo incontro il grado di tensione inerente a questo paradosso che, di per se stesso, mobilita ansie e diffidenze e/o rilancia e impegna le risorse di fiducia reciproca tra i partner.
A volte la consultazione viene vissuta come una “ultima spiaggia” per il legame. Si attendono, quindi, da essa risultati salvifici. Oppure viene investita con estrema cautela, perché di per se stessa, per il semplice fatto di averne bisogno, attesta un fallimento doloroso che si teme sia irreparabile.
Queste possibili attese (magiche o negative che siano) rendono necessario che il terapeuta esponga con chiarezza sia gli scopi e i limiti della consultazione, sia il setting con il quale intende lavorare, concordandolo con il paziente-coppia.
In questo dispositivo, i soggetti che vi partecipano devono confrontarsi con lo sguardo e l’ascolto di altri riguardanti la propria persona, oltre che con l’ascolto di se stessi come solitamente avviene nel setting individuale. La capacità di tollerare questo duplice ascolto e l’immagine che viene restituita da gli altri - compresi i transfert reciproci - ha un ruolo decisivo per quanto riguarda la possibile ulteriore indicazione di terapia (Berenstein I. e Puget J. 1997).
Come in qualsiasi altro dispositivo di consultazione oltre
-all’indagine dei motivi che hanno suscitato la richiesta di aiuto,
-dei fattori scatenanti di essa,
-della natura delle difficoltà che riscontrano,
-delle ipotesi che si sono costruiti (insieme o individualmente) delle cause di esse,
-della storia del legame e delle famiglie di origine,
-si tratta anche di stabilire alcune ipotesi di prognosi.
Vale a dire si tratta anche di valutare:
-la flessibilità e le risorse esistenti nel paziente-coppia,
-la qualità dell’investimento emotivo reciproco,
-l’esistenza (o assenza) e le caratteristiche di un progetto condiviso,
-la compatibilità dei progetti personali di vita,
-la disponibilità a mettere in discussione se stessi e la propria visione della relazione,
-la tolleranza nei confronti delle loro diversità.
E sicuramente altro ancora che, seguendo i loro discorsi e gli scambi che avvengono tra loro e con noi, emerge associativamente e si dipana lungo gli incontri.
Si tratta anche, eventualmente lo si creda necessario, di fare una indicazione di terapia. Torneremo più avanti su questo punto.
La valutazione alla quale si faceva riferimento implica mettere al lavoro il paziente-coppia nel processo stesso di consultazione, per esplorarne le capacità di ascolto reciproco, di tollerare e sostenere le situazioni di conflitto con un personale coinvolgimento benché ammettendone diverse letture.
Questa valutazione è anche resa possibile da alcuni interventi del terapeuta, nel sottolineare alcuni aspetti della dinamica in atto nel qui ed ora dei colloqui, o nel nominare le emozioni che emergono, o nello stabilire alcuni collegamenti tra diversi frammenti o passaggi degli scambi verbali. Oppure ponendo una domanda che, tenendosi prossima al filo dei discorsi che la coppia ha avviato, apre a un ulteriore chiarimento su aspetti sconosciuti e/o assenti (ma virtualmente significativi) di quanto hanno spontaneamente riferito,.
Queste domande e gli interventi sopra indicati hanno un ulteriore valore: consentono di rendere esplicito quanto è tacitato o implicito, scandagliano gli accordi e i patti inconsci della coppia. Ma hanno anche un’altra funzione importante: mettono in evidenza la posizione del terapeuta come terzo che non li conosce. Al contempo qualificano la natura specifica del suo ascolto, diversa dagli scambi convenzionali nei rapporti sociali. Mettono alla prova nel corso dei colloqui la comprensione e le prime ipotesi che il terapeuta va costruendosi del paziente-coppia, delle ansie che si mobilitano, della sofferenza che si rintraccia anche nella coazione a ripetere.
Espressioni come “Io non ti capisco!” “Tu non mi ascolti, non mi hai mai considerata!”. “Non mi aspetto più niente da te!”, “Parlare con te è inutile.”, danno molto spesso a intendere quella sofferenza.
Un frammento clinico
Stella e Giorgio, entrambi professionisti di circa cinquanta anni, sono una coppia con figli ormai tardo adolescenti. Nel primo incontro, nel motivare la richiesta di consultazione, Stella dice di aver proposto più volte al marito l’opportunità di chiedere aiuto con lo scopo di raggiungere ciò che desidera molto: “una maggiore condivisione e intimità”. Entrambi hanno ottimi rapporti con i figli che stanno intraprendendo la propria strada. Parla rivolgendosi al terapeuta, con una modalità piacevole e signorile, ragionevole e pacata. Giorgio, seduto accanto a lei, si tiene leggermente indietro con la sedia. Sembra molto tranquillo ma arrossisce quando lei rimane in silenzio invitandolo tacitamente a partecipare attivamente. Con un certo imbarazzo, afferma di “non credere nella psicoanalisi” e aggiunge che questa sua “convinzione ha trovato conferma dopo una esperienza analitica durata sei mesi e nella quale mi hanno detto cose che io sapevo già”.
Racconta di essere un imprenditore e, oltre il lavoro che lo impegna molte e nel quale trova successo e soddisfazione, negli ultimi anni ha “scoperto con piacere altri molteplici interessi ... specialmente la scrittura e il teatro ... attività che richiedono molto tempo in solitudine”.
Il terapeuta, che si era limitato ad ascoltare con attenzione, colse un divario significativo tra loro: alla richiesta della moglie di “maggiore condivisione e intimità” Giorgio sembrava rispondere di avere bisogno di più tempo in solitudine per sé. Aveva anche collegato l’imbarazzo di Giorgio, quel suo lieve disagio nell’arrossire, quando era stato chiamato in causa, con la sua dichiarazione, nel dirsi convinto “dell’inutilità” di un aiuto psicologico, convinto che gli sarebbero state dette “cose che sapeva già”. Quali cose “sapeva già”? Sapeva delle richieste della moglie? Del desiderio di lei di maggiore vicinanza e condivisione? Del fatto che lui trovava piacere altrove, in altri interessi e piaceri solitari?
La discordanza emersa tra le attese personali dell’una e dell’altro (cioè la richiesta di intimità di lei a cui lui rispondeva opponendo un suo bisogno di solitudine), che al terapeuta sembrava palese, tuttavia non venne apparentemente colta da Stella. Tuttavia dopo un breve silenzio, lei disse di avere una sua attività professionale autonoma e di apprezzare particolarmente la dedizione di Giorgio a quegli interessi, convinta di non ostacolarli. Poi ripropose il suo desiderio di contatto, di reciproca condivisione. Pensava che ciò avrebbe arricchito la loro unione. Giorgio rimase silenzioso e distante.
A quel punto sembrava che ognuno avesse detto quanto aveva da dire. Le ragionevoli parole di lei e la silenziosa risposta di lui, il fatto che si rivolgessero al terapeuta ponendo una diversità apparentemente insolubile, il modo in cui (non) interagivano nel colloquio stesso, la disparità di bisogni e progetti personali, suggeriva una distanza che consentiva loro di tenersi insieme su un fragile confine, su vie parallele, evitando una presa di contatto emotivamente più coinvolgente.
Questo senso di fragilità, non esente di una tensione contenuta che si intravedeva nei discorsi ragionevoli, nei silenzi, nell’imbarazzo, nella mancanza di emozioni, suggerivano al terapeuta il bisogno di essere prudente. Ma contemporaneamente rischiava di arenare anche lui in un vicolo cieco, nell’immobilità difensiva, finalizzata a impedire l’infrangersi di quel tenue filo. Come se qualsiasi movimento spontaneo potesse determinare un collasso a lungo temuto e accuratamente evitato.
Succede con una certa frequenza che il legame di coppia si costituisca in partenza (o diventi lungo il tempo) un involucro protettivo che consente ad ognuno di svolgere in solitudine la propria vita e di esaudire, contemporaneamente, tacite attese e desideri altrui (dei genitori, per esempio) e anche propri (come il desiderio di figli). In queste circostanze, spesso, questo inconscio accordo richiede che si minimizzino i conflitti possibili e, quindi, il contatto reciproco, la messa in palio di emozioni e richieste. Ognuno conserva il proprio mondo relazionale, di affetti primari, familiari e amicali o professionali, che agisce al contempo di collante, quanto i figli. Prevale un clima di tolleranza (che si potrebbe riassumere nel “vivi e lascia vivere gli altri”) fin tanto non emergano situazioni critiche che impongono una forte e continuativa richiesta di reciproco investimento per essere fronteggiate. Situazioni, come una grave malattia, un lutto o un inaspettato cambiamento, che vengono ad alterare sensibilmente una routine collaudata e consensuale e gli equilibri interni di ognuno o di uno dei due. Possono emergere allora bisogni emotivi, attese inevase, rimproveri e conflitti nei confronti dei quali sembrano mancare nella coppia, improvvisamente, le risorse e l’esperienza del “fare” insieme nella condivisione. E i conflitti, anche normali, vengono esperiti come un corpo estraneo, impensabile e negativo, come qualcosa che non dovrebbe capitare e andrebbe preclusa perché suscita solo spaesamento e un senso d’inadeguatezza che spinge solo a un maggior isolamento. Ad intensificare la distanza, la fuga. Come se il legame mancasse alla sua prioritaria funzione di involucro protettivo, finalizzato a preservare l’illusione di una unione senza conflitti in cui tutto può essere compatibile e armonioso.
Il terapeuta è intervenuto dicendo che ognuno aveva espresso i propri desideri e bisogni personali e sembrava, effettivamente, mancare un contatto tra essi. Forse è questo il modo in cui loro si son tenuti insieme nel corso della loro relazione?
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Emergerà nei colloqui successivi sia il timore di Giorgio a una ricaduta di Stella nello stato depressivo che a lungo l‘aveva afflitta, inchiodandolo a un legame che sentiva da tempo concluso, quanto la paura di Stella al dolore della perdita della relazione di coppia (l’involucro protettivo), benché ora fosse in grado di distinguere questo dolore dalla sofferenza depressiva precedente.
Alcune ulteriori riflessioni
È altresì molto utile osservare gli esiti delle domande e dei nostri interventi, quanto ai possibili mutamenti che essi avviano. Vale a dire cosa e come ascoltano i nostri interlocutori, dato che, benché il legame che si va costruendo nel neogruppo conserva il suo carattere asimmetrico, è comunque bidirezionale.
È certamente da aspettarsi che alcuni nostri interventi, a volte, possano favorire una condizione di maggior empatia reciproca nella coppia e di disponibilità riflessiva. Altre volte rendono possibile l’emergere di difese che alterano il clima emotivo dell’incontro e/o producono l’apparizione di convinzioni, più o meno esplicite, più o meno rigide, riguardanti le teorie che uno o entrambi i partner hanno circa il disagio esistente, le cause di esso e i valori e le ideologie sottostanti che, secondo uno o entrambi, dovrebbero regolare il loro legame. Aprono quindi a un universo di argomenti sottintesi, di attese spesso deluse, di rimproveri, di incomprensioni e malintesi, di timori ed emozioni intense. Frequentemente ci rende evidente quale compatibilità o contraddittorietà esiste tra certe premesse (enunciate come convinzioni indiscutibili) e i fatti che narrano o le modalità relazionali che emergono nel colloquio.
Spesso si rende evidente che ognuno dei partner si aspetta che il terapeuta convalidi, con i suoi interventi o con i suoi atteggiamenti, la legittimità di queste convinzioni implicite che si danno per scontate. Alleandosi forse a uno di loro. Come se fosse un giudice che stabilisce chi di loro ha torto o ragione.
Queste dinamiche si pongono con estrema frequenza nella consultazione e l’esito di esse è spesso decisivo per l’evolversi di essa e per valutare l’opportunità e possibilità di un percorso terapeutico.
Esse costituiscono un banco di prova che al tempo stesso che consente di approfondire la comprensione della scena interfantasmatica della coppia e degli accordi e patti inconsci divenuti disfunzionali e non più condivisibili, permette di valutare l’investimento esistente sulla reciproca relazione e le risorse emotive del legame, dato che su di esse potremo (o non potremo) contare per intraprendere un lavoro terapeutico.
Ma è importante sottolineare che queste dinamiche, nella consultazione, mettono anche e principalmente alla prova la consistenza del setting interno del terapeuta, la sua plasticità, la sua tenuta etica, la sua capacità empatica di conservare una posizione in cui il coinvolgimento personale e controtransferale contribuiscano al suo compito terapeutico: nel modulare i livelli di ansia che si mobilitano, nel facilitare il chiarimento e l’esplicitazione dei malintesi sottostanti e nel riprendere e valorizzare gli aspetti condivisi quanto le divergenze tra i componenti del legame.
Non è da dimenticare che ciò che avviene (o non avviene, si dice o si tace, le emozioni e i contrasti che emergono nel tempo limitato dei colloqui) avrà delle conseguenze -importanti da esplorare successivamente e in certa misura imprevedibili - nel tempo e lo spazio della quotidianità che la coppia condivide tra un colloquio e l’altro. Anche per questo motivo è importante che la consultazione si protragga e si articoli, fin dai primi passi, in una cornice che prevede più incontri.
Emerge da queste considerazioni basilari che nella consultazione si costituisce un neogruppo in cui il terapeuta si assume come terzo escluso-incluso, in modo di privilegiare l’osservazione e l’ascolto dell’insieme nella sua singolarità.
Congruamente con questa posizione i suoi interventi saranno prevalentemente orientati alla coppia, al legame (benché non possa prescindere di prendere in considerazione le dinamiche interne dei singoli) nel descrivere quanto succede in quel dato momento tra di loro e con il terapeuta.
Il processo di consultazione ha lo scopo di contribuire a una maggiore consapevolezza del paziente-coppia riguardante le difficoltà e complessità che lo contraddistinguono e consente, in alcuni casi di raggiungere una prima “risoluzione” dei motivi che hanno determinato la decisione di chiedere aiuto, oppure di approdare alla decisione di una indicazione terapeutica.
In entrambi i casi la consultazione si conclude con una riformulazione della originale richiesta di aiuto. Quest’ultima include le motivazioni addotte in partenza all’interno di una comprensione più approfondita che riguarda il particolare momento che la coppia attraversa e la relazione reciproca nella difficoltà che affrontano, le diversità e le componenti comuni esistenti tra loro.
La indicazione terapeutica, quando si ritiene opportuna, può essere per una terapia di coppia, o indirizzare uno di loro a una terapia individuale, oppure può prevedere entrambe queste indicazioni contemporaneamente . In questo ultimo caso si renderà necessario l’invio a un altro psicoterapeuta per la terapia individuale.
La clinica nel dispositivo di coppia
Simone ed Anna arrivano alla consultazione a richiesta di lei, portavoce di un notevole disagio nella relazione.
Anna esprimeva nelle sedute molti rimproveri a suo marito. Secondo lei, da un paio d’anni, “lui era molto cambiato”. Era “diventato una persona egoista, individualista e materialista”. Prendeva spesso decisioni inaspettate e inconsulte, o faceva acquisti per la casa che Anna considerava inutili. Ciò che più la offendeva, però, era che Simone la escludesse da queste decisioni sebbene piccole. Era anche molto cambiato, asseriva lei, il legame di Simone con i suoceri che “l’avevano sempre trattato come un figlio, con particolare riguardo”, poiché Anna era figlia unica. Ora lui criticava spesso i suoceri per ciò che considerava una loro mancanza di generosità. Era “troppo attento a quanto loro davano o non davano”. Anna ne era addolorata e non capiva i motivi di quel cambiamento di suo marito.
Li ricollegava tuttavia alla morte del padre di Simone ed alla nascita del loro figlio. Eventi molto ravvicinati nel tempo.
Era anche molto stupita ed irritata da certi atti rituali di Simone: contare gli oggetti, camminare per casa secondo un percorso predeterminato, sempre identico, o “giocare” con il figlio, scrollandolo insistentemente, fin tanto “il bimbo, come lo chiama lui” s’infastidiva ed iniziava a piangere.
Anna non capiva e portava ai colloqui “lui” come la causa individuata, il responsabile dello “sfacelo” in cui progressivamente si riduceva il loro legame.
Simone minimizzava nel difendersi dicendo che lei esagerava.
Nelle frequenti liti, lui riusciva a volte a “smontare” la rabbia di Anna con scherzosi commenti. Anna benché rappacificata, sentiva che in fondo le rimaneva un senso di sconforto, d’incertezza: qualcosa sgretolava lentamente il legame che per anni era stato molto saldo e rassicurante.
Simone tacitamente ammetteva, ma non riusciva a “spiegare” – né a spiegarsi – cosa stesse succedendo tra loro. Diceva solo di non poter controllarsi, a volte, quando sentiva l’impulso di compiere quei gesti che “tutto sommato non fanno male a nessuno. Anna poi è sempre stata un po’ esagerata, teatrale, e attribuisce chissà quale valore a queste cose”.
Questo flash clinico evidenzia con chiarezza, a nostro avviso, alcune delle questioni su cui ci siamo soffermati.
In primo luogo mostra nel legame l’emergenza dell’ignoto, dell’alieno inassimilabile, incomprensibile, che infrange un sentimento di unità, di trasparenza, di affidabile comunione che, sebbene illusoria, caratterizza l’innamoramento.
Anna esprimeva con molta intensità quello stato emotivo di delusione, legato a ciò che provava come l’irreparabile minaccia di una catastrofe che avrebbe annientato l’illusoria fusione narcisistica. Vale a dire la convinzione di un’intesa possibile e una condivisione assolute. Il rimprovero ne è la manifestazione: … se solo lui non fosse diventato così egoista, individualista! Se solo lui non l’escludesse da decisioni anche banali! Se così fosse, credeva, avrebbe potuto rinsaldarsi quell’unione perduta di reciproca e totale condivisione su cui si era fondata la loro alleanza.
Nel rimprovero, il tentativo è quindi quello di confermare o rafforzare la preclusione, la soppressione di una singolarità (di Simone in questo caso) vissuta come grave minaccia, come qualcosa d’incomprensibile ed ingiusto, d’irrapresentabile, che inevitabilmente li separa, lasciando ad ognuno più solo con la propria delusione.
Anna era convinta che se fossero in grado di “comunicare”, tutto sarebbe tornato come prima. Vale a dire, si sarebbe ristabilita quell’intesa che, fino ad un certo punto, sorreggeva per ognuno la convinzione illusoria di una prevedibile interpretazione di quanto pensava e sentiva l’altro. Paradossalmente il comunicare avrebbe ristabilito quella muta intesa che non richiedeva alcuna parola.
Ora lui era divenuto un estraneo, nei suoi pensieri, nei suoi atti e nelle sue emozioni. La dolcezza con la quale lui scherzava per smorzare il suo dolore – a volte furente – le faceva sentire che si amavano ancora, “ma… così non sarebbe durata”.
Naturalmente lei attribuiva ogni cambiamento nel legame a quegli enigmatici comportamenti di Simone. Non riusciva a pensare, né a vedere, quale partecipazione poteva avere lei in tutto ciò: non vedeva che non vedeva.
Effettivamente nel legame di coppia o di famiglia l’angolazione in cui ognuno è posizionato determina ciò che vede, pensa, sente. Solo si può avere, dunque, una visione parziale dell’insieme. Immaginariamente tuttavia ognuno crede di poter cogliere il tutto (Berenstein, 2001).
Queste visioni parziali a volte si contrappongono ed entrano in conflitto, benché spesso ognuna di esse, nel contenuto, può essere speculare. Vale a dire: A rimprovera a B ciò che B rimprovera ad A. Si instaura in questo modo una circolarità che, nella sua stereotipia, sospende la temporalità ed opera come resistenza a qualsiasi cambiamento. Questa è la clinica del rimprovero.
In fondo questi reciproci rimproveri (alla ricerca di una causalità sufficiente, di un colpevole), il cui contenuto è spesso e in sostanza identico, vorrebbero ristabilire, benché sul versante negativo, un’unione, appunto, nell’identità. Tentano di restituire una fusione che escluda il riconoscimento di differenze, di singolarità, di un’alterità che è intollerabile perché nell’immaginario ogni singolarità separa e minaccia l’ideale narcisista dell’unione. (Nicolini, E., 2008)
La creazione di uno spazio vincolare richiede ai componenti dell’insieme una doppia rinuncia: tollerare la ferita narcisistica che impone il riconoscimento della parzialità della propria interpretazione dei fatiche, tuttavia, è il fondamento in cui radica la propria singolare soggettività. In secondo luogo richiede poter tollerare di non sapere, vale a dire rinunciare ad una conoscenza anticipata che renda l’altro trasparente, privandolo dunque di ciò che lo rende tale: altro, opaco.
Questa seconda rinuncia consente di non saturare anticipatamente il campo con un sapere presunto e quindi ingannevole.
La creazione di questo spazio vincolare nei colloqui è la premessa necessaria che consente di sottoporre le personali convinzioni alla prova del dubbio. Se è tollerabile che esse siano messe in discussione, possono emergere nuove significazioni, che benché parzialmente, rendano rappresentabile l’altro e cogliere con diverse tonalità emotive, ciò che fino ad allora erano vissuti inquietanti e inassimilabili.
Certamente questa condizione dovuta all’alterità del soggetto-altro, nel suo versante più radicale, rimane sempre come uno scarto irriducibile.
Berenstein (2001) segnala che l’io deve affrontare tre diverse estraneità: una che radica dentro di sé e gli è inaccessibile, vale a dire l’inconscio. E’ un alieno che lo determina e la cui parziale conoscenza, può essere raggiunta dall’io attraverso la parola di un altro, come l’analista.
Il secondo alieno che l’io deve fronteggiare è l’insieme sociale di cui forma parte, che lo determina come soggetto di quell’insieme e sorregge le emozioni e le rappresentazioni inconsce dell’appartenenza sociale e familiare.
Un terzo alieno è l’altro che si presenta come soggetto di desiderio e non solo come sede delle proiezioni di un oggetto interno. Anch’esso lo determina. Questa determinazione proviene e avviene nel legame, e attribuisce soggettività a ognuno dei singoli componenti.
Secondo noi ci sono ancora due altre presenze aliene che il soggetto deve fronteggiare: una deriva dal proprio corpo, sul versante in cui esso eccede la rappresentabilità e quindi non ha raggiunto quella significazione che in psicoanalisi si conosce come “corpo erogeno”.
L’altra presenza aliena è tributaria del transgenerazionale. Pensiamo a quell’eredità che ci è trasmessa dalle precedenti generazioni, dunque legata alla propria storia ed alle tacite attribuzioni che segnano identificatoriamente le nostre origini. Se gli antenati hanno confinato quest’eredità al diniego, al rifiuto, all’ambito dell’impensabile, essa costituisce un materiale non elaborato, trasmesso in bruto, inassimilabile. E’ un’eredità segnata da eventi traumatici, da lutti inaccettabili, da fatti impensabili, da non detti, da segreti. Questi materiali che le precedenti generazioni non sono state in grado di trasformare simbolicamente, fanno irruzione nella discendenza attraversando il loro spazio mentale senza consentirgli una qualche possibile appropriazione soggettiva. Possono quindi emergere solo per via della coazione a ripetere nella patologia, oppure in imprevedibili agiti, come un inspiegabile destino, come un alieno.
Ritorniamo alla Clinica
Effettivamente Anna non vedeva quale fosse il suo “contributo” in quello “sfacelo” che minacciava la coppia. Non vedeva in quale misura la sua irritazione nel sentirsi offesa ed esclusa da decisioni o iniziative di suo marito, anche piccole, esprimeva l’intolleranza nell’accogliere una sua pur minima autonomia. Tacitamente asseriva che solo era lecito quanto lei considerava opportuno e piacevole. Non c’era quindi alcun riconoscimento che lasciasse spazio agli altrui desideri e pensieri. Quando emergevano queste singolarità s’infuriava e svalutava ciò che Simone proponeva come mancante di senso, (“inutili spese”), oppure come qualcosa di negativo (“individualista”, “egoista”, “materialista”). Pur accorgendosi della crescente insofferenza di Simone riguardo ai suoceri, Anna non poteva mettere in discussione le tacite premesse del proprio legame con loro, né Simone sembrava in grado di esercitare quella funzione che avrebbe dovuto separare Anna da loro.
Anna era molto legata alla propria madre, che rendeva da sempre partecipe in ogni cosa. Non vedeva né capiva quanto Simone potesse subire, da escluso, questo legame che si era reso più intenso con la maternità.
Un particolare aveva molto colpito il terapeuta fin dalle prime sedute: se Anna chiamava il figlio per nome (Andrea), Simone invece lo chiamava solo “il bimbo”.
Dopo alcune sedute, il terapeuta si era soffermato su questa costante, interrogandosi sui motivi e chiedendo loro associazioni.
Era emerso che Andrea era il nome del nonno paterno di Anna e, che lei aveva scelto per il figlio. Non aveva consentito che su questo argomento ci fosse alcuna possibile alternativa. Simone aveva accettato questa imposizione che iscriveva il figlio nella genealogia di Anna e nella relazione endogamica.
Tacitamente ed inconsapevolmente, però, Simone esprimeva un rifiuto verso quel nome e le sue implicazioni. “Il bimbo” come denominazione non ha alcuna identità. E’ una denominazione in attesa, sospesa, mancante di quegli attributi che la rendano personale. Aveva il valore di un sintomo della coppia, che esprimeva sia la natura fantasmatica del legame di Anna con Andrea, sia in quale misura Simone stesso si ritrovasse escluso, ma anche fosse sospesa la sua attiva assunzione della funzione paterna. Ne vedremo poi altre motivazioni.
Anna invece, immaginariamente, aveva rinsaldato con questo figlio maschio e con l’attribuzione del nome, l’unione con la famiglia di origine, esaudendo ciò che credeva fossero i desideri incompiuti dei propri genitori.
L’attribuzione del nome al figlio era quindi l’espressione di un patto inconscio della coppia. Un patto che veniva a precludere la possibilità di un dissenso, di un disaccordo, di un conflitto, tacitando tutto ciò che poteva minacciare la loro fragile alleanza (nella significazione simbolica che questa nozione ha, di separatezza esogamica che inaugura qualcosa di nuovo e diverso).
Un primo cambiamento nel clima emozionale dominante nei colloqui avvenne quando il terapeuta trovò il modo di trasformare il senso d’impotenza che gli suscitava la stereotipia dei rimproveri di Anna e la mite difesa di Simone. L’interpretazione sottolineava quanto si sentissero spettatori impotenti, tutti e tre, analista compreso, di una scena che si riproponeva identica e che aveva il significato di una morte annunciata e inevitabile, la morte del legame. Era una scena, aggiunse, difficile da scrollarsi di dosso, che saturava gli incontri e benché nella sofferenza, li teneva uniti. Li accomunava in un discorso e in uno scambio del tutto prevedibile. Ognuno conosceva bene la propria parte e poteva anticipare con certezza le battute dell’altro. Così, nell’insistenza ripetitiva, ognuno di loro ricuperava, immaginariamente, la certezza di sapere cosa provava e cosa pensava l’altro.
Paradossalmente ciò che temevano potesse distruggere lentamente ed inesorabilmente il loro legame, era al contempo l’ancora di salvezza a cui si afferravano per sentirsi uniti, per confermarsi a vicenda la rassicurante convinzione di una comune intesa.
Questo intervento suscitò un inaspettato movimento di emozioni ed associazioni. Anna raccontò che mentre venivano in macchina era iniziata una delle solite liti per motivi banali. Si accorse che succedeva spesso quando venivano ai colloqui. “Allora ho pensato che se continuavo a scaldarmi in quella rabbia che mi cresce dentro, la seduta sarebbe iniziata come al solito. Mi sono fermata, ho pensato che forse era meglio lasciar stare”.
Simone: forse litighiamo affinché nulla cambi, per evitare di parlare delle cose importanti, quelle veramente dolorose… (ma la voce gli venne a mancare).
Rimasero in silenzio. Simone era pensieroso, improvvisamente aveva gli occhi lucidi.
Anna che non si era accorta di ciò che succedeva a Simone, colse tuttavia lo sguardo dell’analista e seguendolo guardò Simone. Rimase stupita dall’intensa emozione che trapelava dal suo volto.
L’analista in questo dispositivo terapeutico è depositario di un transfert che gli conferisce un sapere (cercato e temuto) sul legame e su ognuno di loro. Come segnala J. Puget il transfert si instaura su un paradosso: ognuno viene per convincere qualcuno (l’analista) della bontà delle proprie argomentazioni (affinché sancisca chi ha torto e chi ha ragione) ma al contempo scelgono quel qualcuno spinti dal desiderio di essere visti e e ascoltati in modo diverso. (Puget, J., 1998)
L’analista è posizionato su un confine: è interno al legame che si configura nel setting terapeutico, ma contemporaneamente è esterno al loro legame di coppia.
Lo sguardo in questo contesto ha molteplici valenze. In questo caso veicola, anche involontariamente, un intervento in atto: “non vedete che non vi vedete”. Contribuisce ad uno spostamento delle posizioni resistenziali che precludono, in questo caso, un fatto nuovo e inaspettato, sottolineandolo affinché non venga tralasciato.
Il terapeuta chiese ad Anna cosa provava. Lei disse che non capiva perché Simone fosse così commosso. Simone si mise in piedi ed iniziò a camminare per la stanza, silenzioso.
Così si ristabiliva la ripetizione: l’agire che tenta di opporsi resistenzialmente e di sostituire processi sospesi, in attesa di un legame che conferisca un senso a emozioni che si teme siano debordanti. Ma in questa ripetizione c’è qualcosa di nuovo: l’emozione che si rende evidente, oltre il tentativo di respingerla. Non era mai successo che Simone si mettesse a camminare durante i colloqui.
Dopo poco Anna iniziò a dire: “queste cazzate di Simone m‘irritano, mi fanno imbestialire. Sono momenti in cui lo sento lontano, diventa inaccessibile, mi sento esclusa, sola, come se fossi una scema!”
Questo è un altro tentativo di riprodurre il solito circuito immobilizzante. Attraverso l’agire di Simone e la svalutazione irritata di Anna, si priva di ogni nuovo senso quel fatto insolito ed eccezionale: Simone che cammina agitato nello studio.
Nel contesto delle significazioni che condividono, questo fatto nuovo è solo un’ulteriore dimostrazione dell’inadeguatezza di lui e della loro “impossibilità di comunicare”. Non ci sarebbe in questo fatto nulla di inedito, qualcosa che cerca una via per ottenere carta di cittadinanza, per emozioni e frammenti di pensiero alla ricerca di senso.
Simone tornò a sedersi, più calmo. Il terapeuta intervenne collegando queste diverse emozioni: la commozione e l’agitazione di Simone, l’irritazione e l’intolleranza di Anna nel sentirsi esclusa, ecc.
Poi aggiunse che quel bisogno di Simone di muoversi e camminare era un tentativo di tenere sotto controllo emozioni che temeva incontenibili quanto erano incontenibili e incomprensibili per Anna che, per questo motivo, s’irritava.
Lui iniziò con qualche difficoltà a mettere in parole ciò che aveva provato. Disse che il riferimento dell’analista a una morte lenta, annunciata ed inesorabile lo avevano riportato a ciò che aveva sentito durante l’agonia di suo padre. Le parole dell’analista, disse, costituivano una “descrizione vivida di quanto aveva sofferto e che mai era riuscito a pensare con quella chiarezza semplice”. Anna ascoltava.
Nei colloqui successivi Simone riprese quest’argomento. Raccontò alcuni episodi che rivelavano in quale misura lui, il figlio primogenito, si era ritrovato ancora in vita del padre “a dover fare tante cose”. Queste “cose” avevano lo scopo di aiutare sia la madre (descritta come una persona fragile e poco protettiva), sia di sostituire il padre nella cura del fratello molto minore.
Simone: “Non c’era tempo per pensare, dovevo fare. Era talmente scontato ... che solo adesso mi accorgo che io pensavo che erano loro ad avere bisogno e a soffrire quando morì mio padre, come se non fosse anche mio padre e io suo figlio”.
Il clima emotivo era cambiato, Anna ascoltava, partecipava nel racconto e iniziò a parlare di sé. “Si, c’era molto da fare, poi era nato Andrea, m’impegnava molto, avevo bisogno di essere aiutata. Ti chiedevo tante cose. Forse per questo non mi hai mai parlato di quello che provavi”.
Il terapeuta disse che forse neanche Simone sapeva, allora, quello che sentiva.
In questo modo stabiliva un collegamento tra l’alieno interno, inconscio, e il senso di estraneità presente nel legame.
Progressivamente si resero evidenti, per entrambi, le tacite attribuzioni d’imperativi familiari e l’inconscia assunzione di essi e in quale misura loro fossero ancora invischiati ed impegnati nella rete fantasmatica delle proprie famiglie di origine.
Si era creato nella coppia un nuovo spazio comune, un vissuto condiviso tuttavia da posizioni diverse, che non precludeva queste differenze.
Simone si riconosceva per la prima volta come un figlio che ha perso il padre. Si ritrovava con un lutto doloroso, intriso dai sensi di colpa, per il quale non si era concesso uno spazio interno, né gli era stata riconosciuta dai suoi la legittimità di emozioni proprie.
Lui, il figlio primogenito, a cui fin da piccolo era stata assegnata in famiglia la posizione di sostituto paterno, perché si era sempre temuto che il padre, per una malattia subita in gioventù, potesse precocemente mancare. Quasi non fosse ammesso per Simone il bisogno di cure paterne e genitoriali, “perché la mamma non ce la faceva e mio fratello tanto meno date le sue difficoltà”.
Un duplice lutto: per la privazione infantile che non gli aveva consentito d’essere figlio con i bisogni e le emozioni di un bambino. Il paradosso era che da piccolo solo veniva ammesso come figlio se si mostrava in grado di essere adulto, vale a dire autosufficiente e protettivo. Ora a questa perdita veniva a sommarsi l’effettiva morte del padre che sentiva di non aver mai avuto. Un duplice lutto quindi, carico di sentimenti intensamente ambivalenti, di difficile elaborazione.
L’emergere di questi vissuti e la costruzione di questa sua storia personale resero possibile affrontare la ripetizione transferale all’interno della coppia. E faceva luce sulla dinamica dei legami con i suoceri di lui, su ciò che Anna evidenziava come un inaspettato cambiamento di Simone nei loro confronti.
Era altrettanto comprensibile che Simone si adeguasse passivamente, in apparenza, come un fatto appunto “scontato”, al desiderio di Anna d’essere lei a scegliere il nome per il figlio e di assegnargli quello paterno: come se lui non potesse avere desideri propri, come se “il bimbo” non fosse anche suo figlio.
Oltre ad altre convergenti determinazioni, nominare suo figlio “il bimbo” forse veniva ad indicare anche l’identificazione narcisistica con quel bambino, a chi non veniva riconosciuta una singola soggettività, in cui si rispecchiava nella ripetizione.
Certamente le difficoltà di Simone e questa configurazione del legame gli rendevano difficile l’assunzione della funzione paterna e, inconsapevolmente, inducevano Anna a fare un ulteriore riferimento alla propria famiglia, ai vincoli endogamici, ritrovandosi ad esaudire inconsci desideri infantili, antichi e rimossi, che la recente maternità (con la normale regressione che innesca) contribuiva a risvegliare. Queste erano alcune delle componenti del patto denegativo in questa coppia.
La fragilità del legame di alleanza era quindi da collegarsi, in parte, alla prevalenza delle relazioni endogamiche che sussistevano quasi immutate.
Perché una Terapia di Coppia?
Raggiunte queste prime ipotesi e avviato un mutamento nella dinamica dei colloqui che consentiva una prognosi positiva riguardante le risorse esistenti nel loro legame, era arrivato il momento di proporre una indicazione terapeutica.
Questa indicazione richiedeva che venissero ripresi i motivi argomentati nella iniziale richiesta di aiuto collegandoli con quanto era emerso, nella lettura che il terapeuta si era costruito.
Naturalmente non si tratta di dare spiegazioni compiute o tecniche, ma di accennare alcuni passi significativi del percorso che si è sviluppato insieme, che conferisca un senso più articolato alla loro iniziale motivazione (alle difficoltà che loro hanno espresso in partenza) in cui possano riconoscersi. E riconoscere la propria storia personale e di coppia. Un senso insaturo, che tuttavia denoti quale comprensione - parziale - e quali nodi il terapeuta considera prioritari e accessibili in un dato dispositivo terapeutico. In quale dispositivo?
Torniamo a Simone ed Anna.
Nei primi colloqui avevano messo in scena una configurazione che si presenta con certa frequenza: uno dei coniugi (in questo caso Anna) porta l’altro come paziente designato e ne descrive una sintomatologia presunta, che per l’interessato è egosintonica ma che il primo (che si considera sano) ritiene gli procuri sofferenza e sia la causa delle difficoltà nella relazione di coppia.
Anche se in partenza era Anna a esprimere un maggior disagio, progressivamente era emersa con molta intensità la sofferenza di Simone. Una sofferenza che aveva radici antiche ma che trovava nel legame di coppia l’ambito privilegiato di riedizione e inconscia messa in scena.
Per quanto riguarda lui era poco probabile che potesse accogliere volentieri una terapia individuale dato che non ne riconosceva il bisogno. Forse avrebbe accettato una indicazione in questo senso come un ulteriore adeguamento a richieste altrui (di Anna in particolare ... e del terapeuta come rappresentante dei desideri de lei e di una autorità esterna).
Erano anche antiche e sconosciute ad Anna le motivazioni che la inducevano a orientare le sue scelte con tanta determinazione, inconsapevole delle ricadute che avevano sul legame sia con Simone, sia e inevitabilmente in quello di entrambi con il figlio. Inoltre, una indicazione di terapia individuale per lui non le avrebbe dato una implicita conferma del fatto (per lei inequivocabile) che era lui il “problema”? Dunque lui “il responsabile dello sfacelo”, lui a dover cambiare e curarsi. Per conservare l’illusione in una possibile relazione di coppia idealizzata, esente di ogni conflitto e di ogni spiacevole esclusione e dissenso, di fusione indisturbata, di identità di vedute e di compiuta intesa.
Era necessario un percorso che aprisse uno spazio alle emozioni e al pensiero, per conferire un senso a lutti ed esperienze in attesa di essere elaborati. Erano esperienze che incalzavano un “fare” o quel senso di vuoto che Simone tentava di colmare con una attività motoria ( in quei atti incontrollabili) che lo facesse sentirsi vivo.
Era anche da prendere in considerazione che loro erano venuti insieme e avevano posto una richiesta di aiuto come coppia. Accogliere questa loro richiesta con una indicazione consona significava anche accettare quello che loro erano in grado di riconoscere come questione problematica prevalente e ciò di cui si sentivano di voler prendersi cura. In questa ottica significava investire su ciò che era il loro progetto e le loro risorse in quel dato momento. Ciò non precludeva la possibilità di altre indicazioni quando (e se ) ne fossero stati pronti.
Il setting di coppia consente in questo caso di esplorare e analizzare il legame inconscio e apre a nuovi contesti di significazione perché la presenza dell’altro permette di visualizzare e riconoscere le condizioni che rendono possibile all’interno della coppia, la riedizione e la perpetuazione dei conflitti infantili irrisolti, ora trasferiti sul legame e sul partner.
Sappiamo che in queste riedizioni c’è sempre il tentativo, benché spesso fallimentare, di rintracciare una possibilità nuova e diversa che consenta l’elaborazione.
La funzione del terapeuta nel setting di coppia o famiglia è spesso incentrata nel promuovere le condizioni favorevoli al lavoro di rappresentazione e fantasmatizzazione, claudicanti e bloccati.
E’ un lavoro che c’impegna anche nella psicoterapia individuale. Forse non è inutile ricordare che l’indicazione di terapia di coppia o di famiglia, non esclude e spesso si svolge contemporaneamente ad una terapia individuale, nei casi in cui si valuta l’utilità di una pluralità d’interventi.
Questa pluralità d’interventi è ugualmente compatibile per quanto riguarda l’aiuto psicofarmacologico, se la presa in carico della famiglia o la coppia ci lascia intravedere l’utilità di una consultazione psichiatrica per uno o più componenti dell’insieme. Questa pluralità d’interventi è resa possibile dal modello teorico-clinico presente nel terapeuta, dato che, all’interno di una famiglia, colui che appare come “il malato” o “il più malato”, oltre alle determinazioni intrapsichiche personali è contemporaneamente il portavoce di una sofferenza dell’insieme.
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