Il conflitto nell'omosessualità
Il conflitto nell’omosessualità
Il conflitto legato all’omosessualità può manifestarsi a diversi livelli. Partendo da una definizione di conflitto come interazione, in cui la differenza mette a rischio l’identità dei soggetti coinvolti, esploreremo le dinamiche di disconferma e squalifica intese come strategie di conflitto dell’elemento maggioritario, tanto nel confronto intergruppi, quanto in quello interindividuale, e in quello tra premesse della persona stessa.
Da un punto di vista sistemico, possiamo definire il conflitto come un tipo di interazione tra due sistemi in cui l’uno è percepito come pericoloso per l’identità dell’altro. In tale dinamica vengono a confrontarsi bisogni diversi, percepiti come contrapposti, perché in qualche modo valutati come escludentisi.
L’esistenza omosessuale, nonostante la sua visibilità, continua a rappresentare un fenomeno generalmente non atteso nella vita delle persone e una sfida all’ordine previsto dalla premessa sociale eterosessista (Herek, 1986), ed è vissuta come una minaccia per quelle identità costruite sulla socializzazione di valori e rappresentazioni sociali “tradizionalisti”.
Per questo l’esistenza omosessuale è accompagnata da costanti possibili conflitti a tutti i livelli sistemici.
Nell’analisi di questo fenomeno, quindi, ci avvaliamo della distinzione tra livello sociale, familiare e intra-individuale, non come dimensioni indipendenti, ma in quanto “porzioni” di sistema funzionalmente punteggiate (Bateson, 1972) come sottosistemi aperti.
Cominciamo dal livello del macrosistema sociale (Bronfenbrenner, 1979). Gli esseri umani si sono sempre auto-organizzati in gruppi di appartenenza, definiti da caratteri salienti di volta in volta diversi, costruendo la propria identità sociale in base a tali appartenenze (Tajfel, 1978). Rimane inoltre costante la dinamica sociale di confronto, fondata sulla relazione di forza/numerosità, tra gruppi maggioritari e minoritari (Moscovici, 1979; Meyer, 1995).
Tappe evolutive dell’identità sessuale
La prima dimensione dell’identità sessuale di un individuo a strutturarsi è l’identificazione con l’uno o l’altro genere, che avviene entro i 3 anni di età (Money e Tucker, 1975).
Il bambino acquisisce in questa fase la definizione di sé come maschio o femmina, così come il suo contesto di riferimento lo prevede.
Negli anni immediatamente successivi, il bambino scoprirà le proprietà di invarianza trans contestuale e costanza temporale della fisicità sessuale, legata a tale genere, consolidando, di solito intorno ai 5 anni, quella che viene definita identità di genere (Hollander, 2002; Leonard e Archer, 1989; D’Alessio e Pallini, 1984; Marcus e Overton, 1978; Slaby e Frey, 1976; Kohlberg e Zigler, 1967).
Possiamo renderci conto del fatto che la primissima costruzione della maschilità e della femminilità di un individuo, non riguarda la percezione diretta della propria fisicità, quanto il modello comportamentale e relazionale che il contesto gli attribuisce, in base al suo corpo (Ferrari, 2007). È quindi la cornice più ampia del ruolo di genere che costituisce la matrice dell’identificazione sessuale.
Se è evidente che gli esiti della socializzazione di tale ruolo potranno essere diversi, anche in base alla soggettività del bambino, cioè i termini in cui l’individuo interpreterà la propria maschilità o femminilità saranno soggetti ad una certa variabilità, rimane comunque chiaro che il mandato eterosessuale è una delle caratteristiche definitore chiave di quel ruolo cui il bambino viene socializzato. Possiamo addirittura ipotizzare che quelli che per noi adulti rappresentano diversi ambiti di declinazione della maschilità e della femminilità (vale a dire che la stessa persona può declinare il proprio genere diversamente in ognuno di tali ambiti: sesso, prossemica, abbigliamento, professione, orientamento eterosessuale, etc.), in un primo momento rappresentino per il bambino aspetti rigidamente e univocamente equivalenti di un unico indifferenziato prototipo semantico.
Nello stesso tempo, in questo contesto epistemico, si sviluppa l’orientamento sessuale, ovvero l’organizzazione del desiderio relazionale propria della struttura desiderante del sé. Stiamo parlando dell’immagine di quale Altro sia in grado di completare nel senso più intimo e gioioso il sé dell’individuo. Tale immagine nella sua completezza, variamente caratterizzata, risulta, spontaneamente, come il tassello mancante della struttura emergente del sé, a sua volta frutto delle svariate e complesse dinamiche dello sviluppo, ma l’evidenza empirica suggerisce che al termine del consolidamento dell’identità di genere (verso i 5 anni), essa sia già ben definita, anche quando non reclamerà un riconoscimento prima del risveglio puberale.
Le testimonianze delle persone omosessuali riportano infatti una consapevolezza della propria “differenza” già a quell’età (Savin-Williams, 1998).
In questo senso, essa non si trova necessariamente ad avere una corrispondenza con l’immagine normativamente eterosessuale prescritta dai ruoli di genere, pur essendo ovvio che una simile pressione contestuale avrà un ruolo importante, proprio come una di quelle svariate e complesse dinamiche di sviluppo che strutturano il sé.
Ecco quindi un primo spazio per il conflitto intraindividuale. Scoprire che il proprio “tassello mancante” è dello stesso sesso (o che può esserlo, nel caso della bisessualità), dopo aver imparato che essere maschio significa amare le femmine ed essere femmina significa amare i maschi.
La risoluzione di questo conflitto allora non potrà che avvenire dopo aver trovato un significato all’apparente contraddizione tra l’identificazione con il proprio genere e il proprio desiderio omosessuale.
Scoprire dentro di sé questa differenza significa dunque per la persona omosessuale scoprire l’orientamento sessuale, cosa che nel caso invece della persona etero non avverrà fino a quando la sua esperienza non lo porterà in contatto con l’alterità del desiderio omosessuale. Anche per questa ragione la definizione di sé sulla base dell’orientamento sessuale è un aspetto più rilevante e problematico per le persone omo e bi-sessuali, che non per le persone eterosessuali.
Stiamo parlando di dare un nome a ciò che si sente: trasformare in narrazione identitaria ciò che è vissuto identitario. Tale definizione di sé è chiamata identità di orientamento sessuale (Cass, 1996; Ferrari, 2010): “gay”, “queer”, “bisex”, “etero con problemi di omosessualità”, “solo io”, “come chiamare ciò che questo desiderio fa di me?” Serve una risposta, perché questa differenza imprevista costituisce una domanda ineluttabile proprio perché il contesto ne rifiuta l’esistenza. Il nome scelto non cambia il vissuto, né può eliminare il desiderio, ma ne cambierà il senso, collocandolo nella propria costruzione identitaria. Anche la definizione di sé dell’eterosessuale è una risposta identitaria, ma con una grande differenza, perché essa è relativa ad un confronto sociale ad una interazione inter-gruppi, che acquisisce rilevanza solo in determinati contesti, mentre l’identità di orientamento sessuale degli individui appartenenti alle minoranze sessuali è intimamente rilevante in ogni momento in cui il desiderio si accende.
L’individuo che scopre di essere omo o bisessuale deve inoltre confrontarsi con la socializzazione della rappresentazione sociale dell’omosessualità in termini di “alienità”, come un “monstrum fra noi”, che non può tuttavia mai essere uno di noi, rappresentazione che è matrice tanto della squalifica sul piano sociale quanto della disconferma su quello relazionale. Essa significa che ci sono tutta una serie di stereotipi, attributi, immagini e atteggiamenti, perlopiù negativi, socialmente considerati come propri dell’omosessualità, che ne fanno qualcosa di “altro” rispetto a “noi”, e quindi rispetto al “sé” di chi si è abituato a pensarsi parte di quel “noi”. Ecco quindi che accanto al conflitto relativo al ruolo di genere, se ne instaura uno relativo all’appartenenza: un sentirsi intrusi della propria stessa comunità, scoprirsi l’“alieno che si credeva umano”, o nei contesti più omofobici, sentirsi il vero e proprio “mostro che si credeva umano”. Quando poi il contesto di appartenenza socializza specifici valori di condanna della propria alienità, le cose si complicano. Quando l’omosessualità viene costruita come il polo negativo di tutto ciò che è positivo, come “il peccato” nei contesti religiosi fondamentalisti, l’immagine stessa della corruzione morale e della perdita di valori, o come “impotenza” e “debolezza” nei contesti machisti, la vittima designata delle prepotenze che non merita solidarietà perché fuori dal consorzio degli uomini, e quando questi valori sono stati interiorizzati dall’individuo stesso, che farne in quel caso delle proprie emozioni, dei propri desideri, del proprio sé?
È possibile riconoscere, accettare e nominare quella parte della propria identità? Questo è il conflitto più difficile nella vita di molte persone omosessuali: la guerra con l’odio di sé, che si è interiorizzato come un valore, come un segno di umanità, come una marca di appartenenza alla comunità che lo ha generato e gli ha dato ogni cosa, a partire dalla vita.
Dall’esito di questa crisi nucleare dell’individuo dipenderanno le sue risorse per affrontare tutte le relazioni e gli altri conflitti. Dall’esito di questo conflitto centrale dipenderà per cominciare la scelta del nome da dare al desiderio, quella che abbiamo già chiamato “identità di orientamento sessuale”.
Potrà essere una scelta coraggiosa, o una scelta creativa, un’autocondanna o solo una bugia.
Quella scelta potrà connotarsi come un’assunzione di responsabilità, una diplomatica scelta di parole nella descrizione della realtà, o ancora una squalifica di sé, o una vera e propria disconferma del proprio desiderio.
Qualcuno si dirà “gay” o “lesbica” o “bisessuale” o “queer”, dicendo al mondo che l’eterosessualità non è il suo destino, qualcun altro si definirà “senza etichette” per poter violare l’eteronormatività senza mentire, altri si dichiareranno “malati”, riconoscendo il proprio desiderio per cercare di cambiarlo, e infine qualcuno fingerà di non vederlo, cercando di convincersi che non esiste.
Ma dobbiamo ricordarlo: il desiderio non è un territorio insondabile, non è una “realtà” irraggiungibile, di cui le nostre mappe possono offrire milioni di descrizioni possibili. Il desiderio è la mappa, quella mappa che è il solo territorio cui possiamo riferirci per muoverci nel mondo (von Foerster, 1982). Il desiderio è la realtà esperienziale del rapporto fra l’individuo e la mappa. Esso appartiene a ciò che Bateson (1979) definisce “creatura”, anzi della creatura è il sangue vivo, l’esperienza più emotiva ed intensa di ciò che i cibernetici hanno freddamente chiamato “feedback”.
Dalla capacità che la persona omosessuale avrà di guardare, riconoscere, accettare e nominare il suo desiderio, dipenderà la sua capacità stessa di manovrare il timone della sua esistenza.
La persona omosessuale continua a nascere e crescere, pur tenendo conto delle debite differenze storico-culturali, in contesti in cui tale forma di desiderio non è prevista, o al massimo affrontata come devianza patologica o immorale. La definizione di sé, nel tempo, è inevitabilmente segnata dalla forza di tali dinamiche disconfermanti e/o squalificanti, e la persona omosessuale dovrà imparare a gestire un conflitto che alla fine possa permetterle di riconoscere la dignità del proprio desiderio.